giovedì, febbraio 19, 2004

Quel cellulare in mano attesa di compagnia


Roberto Mussapi

Victor ha il telefonino. Un telefonino vero, non un giocattolo. Vero perché sta parlando, lì, accucciato come al solito davanti alla pasticceria, contro il muro, seduto sulle piccole gambe magre e curvo sul suo torace non sviluppato. Ho pensato per un attimo che si trattasse di un telefonino giocattolo, perché Victor, profugo albanese, età indefinibile ma certo giovane, fisico sfortunato, credo rachitismo, oltre che piccolissimo ha una voce infantile, che quando saluta, ad esempio quando dice il mio nome, "Ciao, Roberto", pare il belato di un agnello. Glielo avrà regalato la sua protettrice. Una ragazza, mi racconta, che oltre a fornirgli un po’ di denaro, come facciamo io e altri passanti abituali, gli compera vestiti, lo porta una volta la settimana a casa, lo sbarba, lava, nutre e lo fa uscire di nuovo sulla strada, ma tirato a lucido. Victor dorme in un giaciglio di cartoni protetti da una tettoia, mi ha detto, ma ha il telefonino. Mi accorgo di colpo che quasi tutti i venditori ambulanti extracomunitari che incontro, magrebini, senegalesi, slavi, così come le prostitute nigeriane che affollano per trasferta certi treni vespertini, sono regolarmente dotati di cellulare. E sempre all’improvviso mi viene in mente che la cosa non passa inosservata, che spesso ho sentito dire, con le più svariate pronunce dialettali, ma con un tono inequivocabilmente rozzo e sprezzante: "Quelli mancano del mangiare ma non rinunciano al telefonino. "
Riflettendo accetto che la domanda, pur chiaramente retorica, cioè con risposta inclusa e compresa, pur pronunciata con tono offensivo, possa comunque avere una sua serietà, una sua ragione di esistere. Estrapolandola dal suo contesto potrebbe essere così tradotta: "tra gli effetti negativi della globalizzazione o della uniformità di valori e messaggi, ecco che i superpoveri si alienano, preferendo al pane l’illusione di agiatezza e lusso arrecata dal telefonino, insomma il cellulare è una sorta di oppio dei poveri, come un finto role x o il televisore a colori quando in casa manca il pane."
E di conseguenza, seguendo il filo di questo ragionamento, la pletora di africani, albanesi, cingalesi, sarebbero comunque immaturi, fanciulleschi irresponsabili.
Ma ecco l’incalzare benefico del dubbio: e se la magia di quell’oggetto così stupido quando è stupido (cioè quasi sempre, negli Eurostar dove apprendiamo affari, sport, indigestioni, vacanze, risse e corna di decine di persone per ogni tratta) trasmettesse alle dita che lo pulsano, alle piccole dita rachitiche di Victor e a quelle superdotate dei nigeriani vestiti di colori arcobalenici, alle dita dei marocchini e dei kossovari, la sensazione miracolosa e insieme reale di essere nel mondo, di non essere soli, di poter parlare con qualcuno lontano e forse essere cercati da qualcuno vicino? Ma insomma, perché Beckett ha scritto Aspettando Godot? Per divertire i letterati nichilisti o per avvertirci che siamo, nel nostro tempo più che mai, terribilmente in attesa di qualcosa, di una voce che venga e scenda e ci accarezzi sulle spalle e ci liberi dalla solitudine, dalla disperazione? E se quella multiforme turba di derelitti, laureati Yoruba e analfabeti algerini, mutilati bosniaci e slavi melanconici, non ci stesse indicando che esiste qualcosa di ancora più necessario e primario del pane, la Voce, la Compagnia?

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