sabato, febbraio 12, 2005

Vittorio Bachelet



Il 12 febbraio saranno 25 anni dall'uccisione di Vittorio Bachelet, uomo giusto.
Ho avuto la fortuna e l'onore di conoscerlo come amico. Fu vittima di una violenza politica particolarmente ingiusta e ignorante. Sapendosi minacciato, non volle altra difesa che la sua chiara e aperta umanita'.
Il figlio Giovanni, nello spirito di suo padre, perdono' gli uccisori. I quali, qualche tempo dopo, furono toccati e vinti da quel "segno vincente di pace" in cui "la vita aveva trionfato sulla morte" e si sentirono liberati dal loro passato perche' ricevettero "l'immagine di un futuro che puo' tornare a essere anche nostro".
Anche chi non fa una precisa professione di fede, puo' riconoscere un segno pasquale, di risurrezione, in quella vicenda umana, che nascostamente si rinnova, a bilanciare tante violenze e offese, nella storia umana.
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Il 12 febbraio 1980 le Brigate Rosse uccidevano a Roma Vittorio Bachelet, vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Durante il rito funebre, ripreso dalla televisione, il figlio minore Giovanni (24 anni) prego' per gli uccisori del padre e, a nome della famiglia, annuncio' il perdono.
Quasi quattro anni dopo, un fratello dell'ucciso, il padre gesuita Adolfo Bachelet, ricevette da diciotto brigatisti rossi una lettera, di cui riportiamo il brano seguente: Sappiamo che esiste la possibilita' di invitarla qui nel nostro carcere. Di tutto cuore, desideriamo che Lei venga e vogliamo ascoltare le sue parole. Ricordiamo bene le parole di suo nipote, durante i funerali del padre. Oggi quelle parole ritornano a noi, e ci riportano la', a quella cerimonia, dove la vita ha trionfato della morte e dove noi siamo stati davvero sconfitti, nel modo piu' fermo e irrevocabile.
Per questo la sua presenza ci e' preziosa: ai nostri occhi essa ci ricorda l'urto tra la nostra disperata disumanita' e quel segno vincente di pace, ci conforta sul significato profondo della nostra scelta di pentimento e di dissociazione, e ci offre per la prima volta con tanta intensita' l'immagine di un futuro che puo' tornare a essere anche nostro. Solo alcuni di noi si sono aperti in senso proprio alla esperienza religiosa, ma creda, padre, che tutti, nel momento in cui con tanta trepidazione la invitiamo, ci inchiniamo davanti al fatto puro e semplice che la testimonianza d'umanita' piu' larga e vera e generosa sia giunta a noi da chi vive in spirito di carita' cristiana
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Dio non ci evita il male, non lo impedisce.
Lo prende su di se'.
La sua potenza consiste nel trasformare il male in bene, la morte in vita, come trasse la luce dalle tenebre.

Enrico Peyretti

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Vittorio Bachelet e la pienezza di umanità

Ricordarlo nel giorno anniversario della sua morte è sempre stato, in questi venticinque anni, un modo per riflettere sulla necessità di presenze cristiane in grado di testimoniare la propria fede nella comunità cristiana e nella città degli uomini.

Molti aspetti sono stati studiati della vita di Vittorio: la formazione giovanile, la vocazione intellettuale, la partecipazione attiva al rinnovamento nella stagione conciliare e l’opera per un’ACI rinnovata, il servizio libero e disinteressato alle istituzioni.
Aspetti differenti che si fondono in una personalità che si presentava nella semplicità e con una grande e sempre serena disponibilità.

Vorrei fermarmi proprio sulla dimensione umana: il ricordo di molti, anche il mio personale - un giovane che incontrava il presidente di cui aveva grande ammirazione - ci restituisce un uomo pacifico, aperto, capace di ascolto, di dialogo, disponibile a coinvolgesi in prima persona se interpellato anche su aspetti minimi della vita personale. Non che non avesse le sue idee, non che non esprimesse una sua linea – ne abbiamo più di una traccia sia nel lungo percorso di Azione Cattolica, sia nella sua professione – ma su tutto prevaleva la carità che si traduceva in uno stile sobrio, schietto, sorridente, nella lealtà dei rapporti umani. Vittorio rappresentava quella pienezza di umanità che si realizza nella maturità: nella ricononciliazione con Dio e con gli uomini.

Oggi che richiamiamo la memoria di quella morte così violenta quanto ingiustificata, insieme ai molti aspetti della sua personalità e alla ricchezza della sua testimonianza, vorremmo interrogarci sulle radici profonde di tale capacità di fraternità, di amicizia, di responsabilità.

Ernesto Preziosi

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ROMA - «Non ho dimenticato nulla di quella mattina. Non soltanto la sequenza dei fatti, non ho dimenticato le sensazioni. Conservo addirittura il ricordo dell’odore della polvere da sparo», racconta Rosy Bindi, oggi deputata della Margherita e 25 anni fa assistente di Vittorio Bachelet nella sua cattedra di diritto amministrativo all’Università «La Sapienza» di Roma. «Se non l’avessero ucciso, il 20 febbraio avrebbe compiuto 79 anni. Nel tempo trascorso da allora, avrebbe potuto dare molto al Paese», aggiunge la donna che accompagnava la vittima senza sapere che erano in agguato i macellai delle Brigate rosse. Che cos’altro le è rimasto impresso?
«Tutto, le dico. Potrei cominciare dal deserto che ci trovammo intorno uscendo dall’aula della lezione».
Ossia prima dell’attentato. Perché un deserto?
«I corridoi del pianterreno di Scienze politiche erano stati sgombrati. Al piano superiore Luciano Lama teneva una conferenza contro il terrorismo. Qualcuno sparse la voce che c’era una bomba e noi non fummo avvertiti. Esclusivamente la nostra aula: chi si incaricò di avvisarci non lo fece. Proprio perché la voce era falsa e serviva a ridurre il numero dei testimoni».
Lei e Bachelet andaste al primo piano, diretti verso le stanze dei docenti. Saliste due, tre scalini.
«Io ero alla sua sinistra. Anna Laura Braghetti, con la testa coperta da un cappellino di lana e il volto sorridente, lo chiamò: "Professore"».
Come reagì?
«Vidi la faccia di lui che si era reso immediatamente conto: era una persona sempre sorridente, accogliente, e gli si scolpì in volto la paura. Poi...».
Poi?
«Poi i brigatisti lo allontanarono e gli spararono. Al petto. Alla nuca».
E lei?
«Io chiamai a lungo. Però non arrivò nessuno, fin quando non se ne accorsero dai piani superiori. Uno degli aspetti più terribili è che in quei momenti la paura è l’istinto più forte che ti prende. Perfino la pietà arriva dopo. Prevale il senso di impotenza, la ricerca di aiuto. Che coraggio ci voleva a far fuori un uomo così?».
Bachelet aveva rifiutato la scorta. Perché?
«Glielo avevo chiesto. Pensava ad Aldo Moro, che aveva insegnato nella stessa aula. Gli studenti erano talmente tanti, con Moro, che se dovevamo rivolgerci a lui facevamo prima a parlare con Oreste Leonardi, il capo della scorta poi massacrata. Bachelet mi rispose: "Meglio morire da soli che in cinque"».
Il perdono offerto agli assassini da Giovanni, il figlio di Bachelet, colpì l’Italia. Per lei, cattolica e testimone dell’agguato, quale significato ha?
«Anni dopo, alcuni brigatisti visitati in carcere dai due fratelli di Bachelet, Adolfo e Paolo, gesuiti, dissero: "La nostra vera sconfitta non è stata da parte dello Stato. C’è stata con quella preghiera del figlio a San Bellarmino"».
Non le pare che Anna Laura Braghetti, nel libro «Il Prigioniero», sia stata molto indulgente con se stessa?
«Molto. E non mi è piaciuto il film che ne ha tratto Marco Bellocchio».
Oggi si ridiscute di quel passato, si rievocano morti precedenti come il rogo di Primavalle. Se ne parla nel modo giusto, a suo avviso?
«So che non sono disponibile ai colpi di spugna. Le persone vanno sempre riscattate. Nulla in contrario ai permessi della legge Gozzini, alle misure del caso. Ma no a un’amnistia politica».
Per quale ragione?
«Perché il terrorismo, oltre a uccidere padri di famiglia, ha tolto all’Italia gli uomini migliori. Uomini che si prefiggevano di realizzare la Costituzione: Bachelet, Moro, Emilio Alessandrini... Ci hanno privato di una classe dirigente, ne abbiamo pagato la mancanza. Benché molto diverse, la corruzione di Tangentopoli e il terrorismo sono ferite del nostro Paese. E le Br non hanno mai detto tutta la verità. La regìa era altrove».
Maurizio Caprara, Corriere della Sera, 12 febbraio 2005.

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Venticinque anni fa, il 12 febbraio 1980, assassinato dalle Brigate Rosse, moriva a Roma Vittorio Bachelet. Qualche giorno dopo, durante il solenne funerale celebrato in San Pietro, Giovanni Paolo II disse: «L'eloquenza di questa morte consiste nella testimonianza. Il morto può dare ancora una testimonianza? Sì, la dà mediante ciò che egli era, il modo in cui è vissuto, il come ha operato. La dà anche mediante i vivi: mediante coloro che facevano parte della sua vita. Mediante coloro che ha lasciato orfani. Mediante la famiglia. Ed ancora mediante l'ambiente al quale apparteneva. Mediante tutti noi».
Sono parole che, nel mentre mettono mirabilmente a fuoco il senso più vero di una vita e di una morte fuori del comune, ci riportano con efficace immediatezza al clima di quei giorni, all'ondata di commozione che percorse tutta l'Italia, alla lezione di fede che la famiglia di Vittorio seppe allora darci (come non ricordare la preghiera di Giovanni durante il rito funebre in San Roberto Bellarmino?); e soprattutto ci inducono a riflettere sulla straordinaria testimonianza umana e cristiana di un uomo che nell'umiltà, senza far notizia, seppe dare un contributo importante alla crescita religiosa e civile della società italiana.
Ebbi il privilegio di lavorare nella segreteria di Vittorio Bachelet negli anni in cui egli fu presidente dell'Azione Cattolica Italiana: 1964-1973; anni densi di grandi avvenimenti e di cambiamenti profondi, sia nella comunità ecclesiale, sia in quella civile. Potei perciò conoscere da vicino la sua spiritualità e il suo modo di affrontare i problemi del tempo. Di quella spiritualità vorrei qui richiamare tre aspetti, che mi sembrano particolarmente significativi.
Anzitutto la serenità e il cristiano ottimismo con cui Bachelet guardava alla vita di tutti i giorni. Vittorio era un uomo di speranza nonostante tutto, cioè nonostante le difficoltà del mondo, di cui aveva piena coscienza; e voleva che ogni cristiano, in particolare ogni iscritto all'Azione Cattolica, fosse nella Chiesa e nella società una «forza di speranza», cioè «una forza positiva capace di costruire nel presente per l'avvenire». Il suo ottimismo era l'espressione di una profonda fiducia nell'uomo, oltre che in Dio. Ad esso erano strettamente collegate una grande serenità d'animo e una visione positiva delle cose. Vittorio non perdeva mai la calma e la fiducia. Attraversava certo momenti di grave preoccupazione, soffriva indubbiamente dei mali della società, ma non si lasciava mai andare ad espressioni di sconforto e di sfiducia.
Al contrario, lavorava nella fiducia e nella speranza («Per conto mio - disse pochi giorni prima di morire - vivo nella fiducia che piccoli segnali possano diventare una grande luce»), ed esortava a vivere in una visione positiva e costruttiva della realtà. Era sua convinzione che la protesta potesse essere utile e talvolta necessaria, ma che la proposta era di gran lunga da preferirsi, perché più efficace e costruttiva. Vittorio desiderava che i cristiani sapessero «guardare alla realtà della Chiesa e del mondo non solo per piangere sulla tristezza dei tempi, ma per scoprire le speranze di arricchimento, le possibilità di bene su cui costruire un avvenire migliore. Guardare alla realtà del mondo non solo per elevare proteste più o meno vibrate - anche queste talora necessarie, ovviamente - ma per vedere con quali mattoni si possa costruire una casa migliore; non solo per correre a spegnere a ogni pie' sospinto la casa che bruciava, ma per costruire nuove case, non più di paglia così da prendere fuoco ad ogni alitare di vento, ma solidamente in cemento armato».
Il secondo aspetto della spiritualità di Vittorio Bachelet che vorrei qui brevemente ricordare riguarda il senso di apertura verso i fratelli. Chi ha potuto avvicinarlo sa quanto grande fosse la sua capacità di accoglienza, di ascolto, di condivisione, di rispetto, in una parola di amore. Di fronte all'interlocutore (chiunque esso fosse: pove ro o ricco, colto o ignorante, condividesse o no le sue idee politiche e religiose) egli si poneva in un atteggiamento di profonda umiltà e sincera disponibilità. E ciò indubbiamente facilitava l'incontro e la conversazione. Parlando con lui avevi veramente l'impressione di essere ascoltato e capito. Sapeva partecipare alle gioie e alle difficoltà di ognuno con pienezza ma anche con raro senso di discrezione. Stava volentieri - e vi faceva bella figura - con le persone colte, brillanti, umanamente vive; ma le sue preferenze erano per quella gente semplice che - come ebbe a dire nel 1970 - «molti oggi, anche tra i cristiani, sembrano considerare un peso per la Chiesa, ma che è quella gente di cui sarà pieno il regno di Dio».
E tra la gente semplice un posto particolare avevano nel cuore di Vittorio i poveri. Non solo i poveri che chiedono l'elemosina all'angolo della strada o alle porte delle chiese, ma anche quelli che egli chiamava i «nuovi poveri». «In questa società quasi opulenta, ci sono infiniti poveri, specie nelle grandi città», disse nel 1972 facendo riferimento ai malati, agli orfani, agli emigranti, ai disoccupati, ai braccianti, ai vecchi la cui solitudine e il cui bisogno di aiuto - precisò allora profeticamente - «sarà uno dei grandi problemi di domani e avrà bisogno di tutto l'amore cristiano per essere affrontato».
Il terzo ed ultimo aspetto riguarda la concezione laica che il credente Bachelet aveva del suo impegno nella Chiesa e nella società. Cresciuto alla scuola della Fuci e dei Laureati cattolici, conosceva molto bene la distinzione maritainiana tra la sfera del naturale e quella del soprannaturale, tra la politica intesa come partecipazione alla costruzione della «polis» e alla realizzazione del bene comune, e la politica puramente partitica, elettoralistica, tecnica; e metteva in guardia contro ogni disordinata confusione e sovrapposizione di fini e di mezzi, prospettando la necessità, già all'indomani del 18 aprile 1948 ma con maggiore in sistenza negli anni in cui fu a capo dell'Azione Cattolica, di una «doverosa opera di chiarificazione, al servizio anch'essa della Chiesa e della città».
Vittorio era un uomo libero, anche nei suoi rapporti con la gerarchia. Era però anche un cattolico obbediente. Libertà nell'obbedienza, o se si preferisce obbedienza nella libertà. In un momento in cui (mi riferisco agli anni dell'immediato post-Concilio) parole come autorità e obbedienza sembravano essere passate di moda, dentro e fuori della Chiesa, Vittorio affermò con vigore la convinzione che si potesse essere liberi ed insieme obbedienti, che «dei cristiani franchi e liberi possano vivere nella Chiesa di oggi e di domani bell'obbedienza e nella pace», additando l'esempio di Camillo Corsanego, che nel 1925 offriva a Pio XI la libertà e la disponibilità dei suoi giovani, non «quasi trepida ansia di servi ma libera confidenza di figli»; di don Primo Mazzolari, che auspicava una generazione di laici che sapessero obbedire al Papa stando «in piedi» e che «in piedi sapessero dargli una mano a portare la grossa croce che ha sul cuore e sulle spalle»; di Angelo Roncalli, «prete, vescovo, Papa libero e fedele», rispettoso delle altrui competenze e responsabilità; e finalmente additando ai cattolici italiani la figura «libera e fortemente cristiana» di Alcide De Gasperi, che - disse nel 1966 - «rimane per noi e per le generazioni che verranno maestro non solo di arte politica, ma vorrei dire soprattutto maestro dello spirito, di coerenza ideale e di rigore morale: espressione veramente di quella spiritualità laicale che tutto assorbe dalla ricchezza cristiana e, nella fedeltà alla Chiesa, liberamente e con propria responsabilità, trasfonde quella ricchezza nel faticoso operare delle realtà umane, nel più grande rispetto di tutti i valori umani: geminando davvero - dato il suo specifico campo di azione - con un genuino senso della Chiesa un autentico senso dello Stato».

Mario Casella, Avvenire, 12 febbraio 2005.

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