venerdì, aprile 01, 2005

Eliminare chi ci fa soffrire, una pietà bugiarda.

Eliminare chi ci fa soffrire, una pietà bugiarda.

Pietro De Marco

E' da tempo che l’antropologia dell’Occidente ha ceduto sulla intangibilità dell’individuo umano; per essa l’inguaribilmente malato e l’incompletamente umano ormai coincidono. Non appena si tocca la condizione malata data per irreversibile, una coerente tendenza contemporanea – cui i giudici danno meccanica quanto impietosa attuazione – guarda alla soppressione dell’individuo carente come ammissibile. E questo vale nell’arco dell’intera nostra esistenza temporale: dallo zigote al bambino, all’adulto malato terminale, all’anziano in condizione "vegetativa". Il profilo è netto: l’individuo immaturo o malato è al servizio "altruistico" della volontà di salute degli altri individui. Gli esseri umani carenti, nella vita intra o extrauterina, appaiono così destinati alla soppressione. Si badi: non destinati per se stessi, poiché in linea di principio il pubblico ethos e le legislazioni dei paesi "evoluti" ne favorirebbero la tutela, e la parità con i sani, eppure suscettibili d’essere soccombenti non appena il loro diritto sia messo tecnicamente a confronto col bene-essere dei sani o dei risanabili. Tra le molte cause invocate per questa deriva, dal dominio della Tecnica che imporrebbe le proprie potenzialità come obiettivo umano valido, a quello della Biopolitica, non dobbiamo ignorare la rimozione della sofferenza empatica da parte di una soggettività degradata a sensorio della sola epidermide, com’è quella di noi moderni. Romano Guardini, nelle lezioni di Monaco sull’etica, formulava una diagnosi cattolica sulla modernità: l’uomo è stato condotto a «considerare la volontà di non ubbidire come un segno di superiore eticità. Vi è in questo un inganno ontologico che va riconosciuto». Fa parte di questo inganno ontologico anche l’uso "emancipatorio" dell’empatia, ossia dell’esperienza del dolore dell’altro nel proprio e come proprio, insomma del corpo dell’altro come corpo proprio. Il con-soffrire diviene motivo dominante dell’agire, anzi dell’agire in propria difesa. Nell’inganno ontologico la vulnerabilità empatica alla sofferenza dell’altro si risolve, infatti, nella pratica della soppressione "pietosa" della fonte stessa della nostra sofferenza. Gli amici di Giobbe non si chinarono su di lui pensando di praticargli una dolce morte; si interrogarono con lui sulla Legge, videro (inadeguatamente) peccato e retribuzione; aprirono comunque, come fu loro possibile, lo sguardo alla trascendenza che appariva sul letto di strame. Giobbe non volle sottrarli alla responsabilità dell’interrogazione sul male, né al fetore delle sue proprie piaghe. Ma la vita di Giobbe verrebbe oggi considerata "non dignitosa" in sé (Giobbe, invece, contende con Dio sulla giustizia, non sulla dignità della propria condizione) e gli amici vorrebbero comportarsi "umanamente". In un testo assai noto (del lontano 1965, Moralility and Emotions) Bernard Williams si chiedeva, contro Kant, se non si dovesse «ragionevolmente caldeggiare la proposta di non mirare più alla formazione di persone morali (…) bensì alla formazione di persone che, pur con molte incoerenze, compiano un gesto umano»; l’auspicio del filosofo (recentemente scomparso) ha evidentemente trovato seguito e Terri Schiavo sta già sperimentando il nuovo canone etico dell’"emozionalità creativa".

Avvenire, 26 marzo 2005

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