martedì, novembre 22, 2005

Da che parte sta l'ipocrisia

Consultorio pubblico, ore 9. «Sono incinta ma vorrei abortire. Cosa devo fare?». L'impiegata non alza neppure il volto dalle scartoffie in cui è immersa, porge un foglio e biascica: «Compili questo modulo e poi entri nel secondo ufficio a destra, per fissare l'appuntamento». Semplice, no? Lo scorso anno questo dialogo paradossale e assurdo nella sua tragica stringatezza, si è ripetuto, con tutte le varianti del caso, per almeno un terzo dei 136mila 700 aborti registrati dall'Istat. Quelle situazioni in cui una donna, indotta da cause le più diverse, ma spesso anche da smarrimento e preoccupazione per il futuro, si è decisa a varcare le fatidiche porte del consultorio, per avere un burocratico via libera ad interrompere la maternità che si portava dentro. Una scelta comunque drammatica, e su questo convergono ormai tutti.
Ma perché l'esito di quell'ingresso al consultorio dev'essere scontato? Forse che quella struttura non è avamposto a servizio e a tutela della donna e della vita che questa porta in sé? Pretesa, questa, né esagerata, né buonista, né confessionale. Lo spiega in maniera inequivocabile l'articolo 2 della famosa legge 194 del 1978 sull'interruzione di gravidanza, una legge - per capirsi - che a tutti gli effetti è della Repubblica italiana. Ebbene se il lessico può prestare il fianco a critiche, la sostanza non lascia spazio a fraintendimenti: «I consultori... possono avvalersi della collaborazione volontaria di idonee formazioni sociali di base e di associazioni del volontariato, che possono anche aiutare la maternità difficile dopo la nascita».
Dunque, chiedere nei consultori la presenza di volontari capaci per attitudine e sensibilità di affiancare, con ogni rispetto, la donna in difficoltà a causa di una gravidanza non desiderata, aiutandola a valutare anche le alternative possibili all'aborto, non è una richiesta oltranzista ma semplice e doverosa applicazione del dettato della "194". Eppure, dopo l'annuncio del ministro della Sanità Storace, si è assistito ad una inattesa levata di scudi ideologica da parte di taluni settori della società civile e politica, pronti a stracciarsi le vesti alla sola ipotesi che venga offerta alla libertà della donna una concreta possibilità di scegliere liberamente e liberamente poter anche accogliere la vita. Valore supremo, istanza etica che non dovrebbe avere colore politico, la vita è anche fondamento di una legge che da quasi trent'anni risulta sostanzialmente inapplicata, almeno nella sua parte preventiva. Ecco perché, se nessuno pretende di scardinare la "194", allo stesso modo nessuno può imporre un'applicazione eternamente viziata della stessa legge. Nessuno può impedire quello che la legge chiede, ossia che venga data un'efficace tutela sociale della maternità. In questa prospettiva la presenza dei volontari per la vita nei consultori pubblici, cioè laddove l'aborto viene richiesto e praticato, dovrebbe più che segnare un traguardo ristabilire un corretto punto di partenza. In questi decenni i consultori sono diventati solo presidi sanitari che, anche sotto la spinta di un'egemonia culturale di chiara impostazione abortista, hanno di fatto tradito le loro finalità istitutive. La legge 405 del 1975 li aveva pensati anche come realtà a servizio della famiglia, della maternità e della paternità responsabile. Sono diventati tutt'altro, nonostante tre commissioni nazionali abbiano tentato a più riprese di riqualificarli.
Il nuovo clima di attenzione alla vita scaturito dal recente dibattito referendario, proprio perché non intende rimuovere la 194, chiede però di attualizz arla nella sua interezza, senza ipocrisie e senza omissioni omertose. Arricchire i consultori con una presenza pluralista, in cui la cultura della vita abbia a sua volta piena cittadinanza, dovrebbe essere interesse non solo di tutti coloro che si pongono l'obiettivo di evitare alle donne in difficoltà il trauma dell'aborto - indelebile per comune sentire - ma anche di chi guarda con onestà intellettuale un problema di coscienza che interroga le radici stesse dell'esistenza.

Luciano Moia, Avvenire 20 novembre.

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