lunedì, dicembre 17, 2012

Buon Natale


Sull’asino e sul bue


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Stavolta mi occupo de minimis, una cosa insignificante. Dovete sapere che continuo a ricevere Avvenire, come quando ne ero redattore; e il giornale dei vescovi ha dentro un inserto che vuole rivolgersi a bambini, un giornalino dei piccoli, Popotus. Di solito lo butto senza guardarlo (spero che i bambini facciano altrettanto), ma stavolta mi ha incuriosito il titolo di prima pagina; la “grossa notizia”, per così dire. Eccola:

Evviva il presepe! (Quello giusto)


E quale sarà il presepio «giusto»?, mi sono detto. Lo spiega il sommario: «Nel suo ultimo libro il Papa dà tante indicazioni per collocare le statuine: angeli e pastori cerano di sicuro, asino e bue no». Nel testo si rivela che i re magi (secondo il Papa) «di sicuro non erano re e non avevano cammelli», forse erano astronomi; e che a guidarli «non fu di sicuro la stella cometa;cominciamo a ‘correggere’ il presepio…».

Anche i giornali per adulti avevano dato la notizia, cogliendo del libro del Papa solo questo particolare, da loro giudicato in qualche modo sensazionale: nella Santa Notte di Betlemme, niente asino né bue. Del tutto trascurato – ma sarebbe chiedere troppo ai gazzettieri – il senso dei libri che Benedetto XVI sta laboriosamente scrivendo, intesi a confermare (a professori tedeschi, immagino) la storicità di Cristo. Quel che mi ha colpito è il tono di gioia funesta con cui la redattrice di Popotus annuncia ai bambini che, su ordine del Papa, devono «correggere» il presepio: via l’asino e il bue, finalmente! E niente cometa! I re magi, sostituiteli con degli astronomi… e niente cammelli. E finalmente, ecco il presepio veramente giusto, razionale, cattolico-papista.


Questo tono mi ricorda precisamente un’altra gioia funesta: quella che dominò i fautori del Concilio, e gli stessi padri conciliari, per «l’aggiornamento» della fede cristiana, per andare incontro all’uomo moderno. Su Popotus colgo l’ultima, estrema eco di quel clima psicologico, di quell’etat desprit. E ne riconosco la fonte: Rudolf Bultmann (1884-1976), il luterano professore di teologia che fu uno dei numi occulti dei vescovi e cardinali conciliari; l’altro era Karl Rahner. Se costui era il profeta e promotore della «svolta antropologica», Bultmann era quello della «de-mitizzazione». In breve, secondo lui (e quei padri) «il linguaggio mitologico non è più comprensibile oggi alluomo modernoe la fede non può essere ridotta a un mero prendere per vera una serie di fatti miracolosi». Bultmann vorrebbe dunque spogliare il messaggio evangelico dal linguaggio mitologico(inessenziale) per renderlo comprensibile alluomo moderno. Dice anche che è inutile cercare dai Vangeli «il Gesù della storia», visto che sono intessuti di miracoli (racconti spurii), bisogna enuclearne invece il «Gesù della fede», meglio ancora il «kerigma» (1). E bla bla bla: riconoscete il gergo, e lanimus, conciliare.

Quale accecamento, quale errore psicologico, da parte di una Chiesa che per secoli fu maestra di psicologia. Valga qui il detto di Chesterton: quando l’uomo moderno smette di credere in Dio, non è che crede a nulla; crede a tutto. Abbiamo così credenti nella fine del mondo basata sul calendario Maya, seguaci di Castaneda e di Osho, buddhisti e lamaisti cui viene prescritto di credere alla dea Tara, reincarnazionisti New Age, eccetera, mentre il cattolicesimo si è fatto sempre più disadorno e vuoto, infinitamente teso a liberarsi dalle sue «concrezioni» bimillenarie, fino a rendersi insignificante (2). E, diciamola tutta, noioso; mentre il lamaismo è così interessante e pieno di colori, irrazionali ripetizioni di mantra, liturgie precise, obbligo della lingua tibetana.

Da quell’animus vengono le chiese orrende alla Fuksas, le liturgia abbandonate a quelle rifatte un tanto al chilo, l’ostilità a tutto quello che (poniamo) Kiko Arguello ritiene di testa sua «costantiniano», ossia coinvolto col potere temporale; e a cui sostituisce non già l’assenza di liturgia – perché semplicemente, l’assenza è impossibile – ma una propria ferrea altra liturgia inventata, identitaria e fanatica, dov’è dubbio se si desideri ancora la Transustanziazione...

Insomma ecco com’è finita: dal Niagara che Bultmann ha riversato sulle teste conciliari, giù giù nel tempo e nello spazio, dopo aver travolto riti e tradizione nella sua corrente, arriva in rivoli; e un rigagnolo ritardatario feconda Popotus (giornalino infantile dei vescovi): il Bultman per infanti. Dove la redattrice sente come un dovere morale, cattolico, togliere dalla testa dei bambini di 5-6 anni le «favole». Che il bambino cattolico si sbrighi a pensare e a vivere da ragioniere già a cinque anni; che sia immediatamente svezzato da ogni incantamento del mondo, che sia un essere pratico che crede solo alle cose verosimili e certificate dal metodo critico. Che non cada nel peccato mortale di «credere all’impossibile»: miracoli, apocalissi, esorcismi (e Resurrezione?). No, non ci fu alcuna cometa, e questo «è» cattolico, mentre non è più del tutto cattolico crederci; no, non c’erano «di sicuro l’asino e il bue», lo dice il Papa quindi obbedite. Figurarsi poi i re magi coi cammelli. «Cominciamo a correggere il presepio».

Non sarà inutile ricordare, dato l’analfabetismo religioso che travolge tutti (cattoliconi compresi) che il presepio fu inventato quasi otto secoli fa da San Francesco, a Greccio. Che ignorava Bultmann e la svolta antropologica ma, avendo ricevuto dall’alto le stigmate del Crocifisso (sicuramente spurie?) potrebbe avere qualche voce in capitolo. Il presepio che i bambini sono invitati a correggere è il suo. Era un presepe vivente, una sacra recitazione fatta con veri esseri umani, «per il gran desiderio che Francesco aveva di rivivere la scena e di adorare il Bambino»: era un mondo incantato quello in cui viveva Francesco. Si sa, l’oscuro Medio Evo.

Fu lui a mettervi l’asino e il bue. Fatto sta che da allora e fino all’inserto di Avvenire nessuno ha mai «corretto» la circostanza. Persino il Caravaggio, che era un delinquente, che si rifiutava di idealizzare i suoi personaggi delle storie sacre, e come modelli degli Apostoli prendeva suoi compagni di osteria, di ospedale dei poveri e di malavita stracciona, non cambia quel dettaglio.



Vedete qui il suo toccante capolavoro, l’Adorazione dei Pastori. I pastori hanno piedi nudi e sporchi di letame, manone callose. E la Vergine – che profonda intuizione dell’artista – è una povera, piccola cosa stremata, una fanciulla che il parto ha esaurito, che sfinita, indifesa, nemmeno sorride, e s’è abbandonata disfatta sulla paglia; solo la luce che inonda il rosso della sua veste allude allo Spirito che l’ha scelta. Ebbene: anche lì, sullo sfondo ci sono l’asino e il bue.

San Francesco non mirava certo ad una ricostruzione filologica della Nascita a Betlemme, e tuttavia era spinto dall’ardente desiderio di vedere «le cose com’erano andate davvero». Come mai trovò naturale mettere i due animali nella scena con Maria, Giuseppe e il Bambino?

Perché, certo, il racconto evangelico afferma che Maria pose il Bambino dopo averlo fasciato, «in una mangiatoia, non essendoci posto per loro nell’albergo». Ma soprattutto, perché quella notte a Betlemme era d’inverno: e d’inverno, era «naturale» per italiani poveri di campagna passare le sere nelle stalle, nel tepore prodotto dagli animali.

Era una cosa comune che Francesco avrà visto, nel suo Duecento; ma l’usanza è durata fino all’altro ieri, fino alla metà degli anni Cinquanta. Nella mia Toscana, io l’ho vista. Non so come, perché non ricordo d’essere mai stato portato dai miei genitori, ragazzino, in Toscana d’inverno; ci s’andava d’estate in villeggiatura. Eppure ho un ricordo preciso della scena:

furono portate da casa le vecchie sedie impagliate, ridendo; sull’aia all’aperto, il gelo scricchiolava sotto le scarpe. Uno degli uomini accese un lume a petrolio, lo appese, e nella vacillante luce ci si diede ad ammucchiare la paglia pulita; era come un ricevimento, credo venissero anche parenti del vicinato. Le donne sferruzzavano e chiacchieravano, gli uomini fumavano le pipe – forse spannnocchiavano granturco – e parlavano, da tecnici competenti di cose agricole. Noi ragazzi, una dozzina, sulla paglia, eccitati, ascoltavamo. Le bambine attaccate alle mamme o alle zie.

C’era un bel tepore, impossibile da produrre nelle gelide case di pietra, d’inverno. Lo mandavano un paio di buoi e una mucca. Più che vederli, li udivamo: ruminavano, i muscoli e le froge a tratti fremevano (da qualche parte dovevano esserci anche delle galline, che a volte borbottavano piano, mezzo addormentate sui trespoli). L’afrore animale, e quello di urina e fatte, non disturbava; era il mondo prima dei deodoranti, ed anche gli esseri umani avevano odori forti, di grano maturo, di fieno, di sigaro toscano. A quel tempo, erano gli odori chimici, o dello scappamento, a far storcere i nasi, ad essere percepiti come veleno.

C’erano riunite tutte le generazioni viventi: dai nonni ai nipotini, le zie, i collaterali e i congiunti. I ragazzi del posto non erano interessati a giocare; ascoltavano gli adulti sfrontatamente ed avidamente, pendendo da ogni frase. Non volevano giocare; volevano «sentire i grandi». A me avevano insegnato, in città, che «Non è buona educazione ascoltare i grandi», e mi astenevo. Solo più tardi ho capito che avevano ragione i campagnoli: che quella era la loro scuola, la loro università. Quanto avidamente imparavano – dalle donne, e soprattutto le ragazze – non solo i pettegolezzi del paese (essenziali per chi ci viveva), ma i gradi di parentela fra vicini e parenti (a cui attribuivano un interesse imperioso, incomprensibile per me piccolo milanese), le complicazioni dei rapporti umani, antiche alleanze e inimicizie: in una parola, la struttura della loro società, proprio nel senso dello strutturalismo di Levy-Strauss. Dagli uomini quanto si imparava, e che non ho imparato! Le arti dell’innesto, quelle della caccia con le sue disavventure (grandi risate alle spalle del cacciatore spadellatore), il ricordo di quando arrivò la peronòspora e bisognò innestare la vite con l’uva americana, o il tifo durante la guerra e due neonati erano morti. Si imparavano le parole; si imparava a motteggiare e canzonare nel dialetto che era, per loro, la bella lingua toscana, precisa e ricca e adatta alle battute di spirito. Finiva che qualche uomo specialmente versato raccontava storie di antichi scherzi fatti ad un avaro, oppure a uno sciocco ricco del luogo; ad uno che credeva negli spiriti, furono mandate in casa due tartarughe con una candela sul carapace, mentre da fuori, nella notte, i buontemponi cantavano lugubri: «Quando erimo vivi, andavamo tra gli ulivi – ora che semo morti, veniamo a pigliar Biagio». E Biagio effettivamente morì, di paura! Tutti ridevano a scrosci. Le donne, sferruzzando, scotevano il capo.

Ma quando sono successo queste cose? Chi era questo Biagio?, chiedevo. A sentir loro, era «uno di qui»; davano il grado di parentela con uno dei presenti; era successo «diversi anni fa». Con gli anni, poiché questo tipo di racconti veniva ripetuto da persone diverse e tutte pronte ad indicare la genealogia di Biagio, ho capito che erano racconti rituali e molto antichi: forse, il modello erano le burle che, nel Decamerone, Bruno e Buffalmacco giocavano al loro amico un po’ «semplice», Calandrino. Scherzi non di rado crudeli, alla toscana. Toni e linguaggio erano calchi dal Boccaccio: «CalandrinoBruno e Buffalmacco giù per lo Mugnone vanno cercando di trovar lelitropia», o come «Bruno e Buffalmacco imbolano un porco a Calandrino». O più probabilmente il Boccaccio riprese linguaggi e burle dai contadini di allora.

Favole narrate come realtà. Ma poi c’era ancora qualcuno che ricordava il cantastorie – da tempo sparito negli anni ‘50 – che andava di paese in paese a cantare, in endecasillabi rimati, la tragedia di «Lindemberghe il grande aviator»: di quando a Charles Lindberg, trasvolatore atlantico, malvagi rapirono il figlio infante. La cronaca diventava dramma cantato, pathos incantato e commovente. Finiva che qualcuno, su nostra insistente richiesta, recitava passi della Gerusalemme Liberata: i crociati, i cavalieri, gli eroi...

Nella penombra, le grosse teste cornute contro il muro, i bovini sembravano ascoltare senza parere, masticando erba secca come noi facevamo coi calami della paglia, tra le pannocchie. Era una sera fatata, col gelo che gridava fuori facendo scricchiolare le assi, lì al calduccio animale, parlando di storie che erano favole, e favole che erano cronaca vera. Si imparava così, dagli adulti, che c’era stato un tempo pieno di avventure e di storie, cui ancora noi appartenevamo; si viveva per qualche ora nel mondo incantato della lampada a petrolio, la luce dove tutto diventava possibile: la stessa luce di Caravaggio nel quadro. Ritardavamo l’ora in cui ci sarebbe toccato tornare nelle stanze ed infilarsi fra lenzuole gelate ed umide ancorché odorate di lavanda e di mele, battendo i denti, sotto coltroni pesantissimi, finché il nostro calore animale non avesse reso tutto tiepido, e allora, il sonno.

Questo per dire come mai San Francesco, poco rispettoso del metodo storico critico e della demitizzazione, mise nel presepio l’asino e il bue. E perché aveva ragione.

Buon Natale.





1Su Wikipedia trovo una frase attribuita ad un «Manifesto della demitizzazione» che non so se sia di Bultmann, ma rende con la dovuta rozzezza (ossia non mascherata dal gergo coltissimo del professore tedesco) il succo della sua posizione: «Non ci si può servire della luce elettrica e della radio, o far ricorso in caso di malattia ai moderni ritrovati medici e clinici e nello stesso credere nel mondo degli spiriti e dei miracoli propostici dal Nuovo Testamento». Ovviamente Bultmann è uno dei capostipiti della setta giudaizzante: afferma che il giudeo-cristianesimo primitivo, quello vero, è stato ellenizzato per colpa di San Paolo, influenzato secondo lui dalle religioni misteriche e dallo gnosticismo. È Paolo che fa del profeta giudeo Gesù il Dio presente e il redentore, tipico delle religioni misteriche. Bultman vuol cancellare ogni «rappresentazione» che costringe il divino in categorie umane, immanentizzando la trascendenza assoluta di Dio, e abbassando a «fatto puramente umano» la redenzione di Cristo. Rigetta la dottrina cattolica che riduce Dio «a causa prima, un essere alla maniera del mondo», oggetto di conoscenza. Il suo Dio è totalmente inesprimibile e inconoscibile. Di Esso non si deve nemmeno parlare: «Ogni discorso umano su Dio al di fuori della fede, non parla di Dio ma del diavolo» Il suo Dio è talmente purificato e rettificato, che non esiste più.
2) Ciò spiega la grande diffidenza, se non ostilità dei clericali («cattoliconi») per Padre Pio: troppi miracoli. Guarda caso, la gente cristiana accorre e si affolla quando si annunciano miracoli, apparizioni della Vergine, guarigioni, profezie di sventura della medesima Vergine. Il cattolicesimo «razionale», demitizzato, in lingua locale, in chiese anti-tradizionali, non pare attrarre altrettanti fedeli. 

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